Mutuiamo un articolo apparso originariamente su Repubblica nel 2017 , gentilmente condiviso l’11/11/19 da Nicola Lagioia su Facebook
Due parole di introduzione
La domanda è quella sempre attuale: cosa possiamo dare al mondo come antropologi e antropologhe e perché il modo ha bisogno di noi.
La risposta è nelle mille riflessioni quotidiane, suggerimenti su come altri hanno risolto problemi che ci poniamo. Più approfondisco la ricerca sulle fonti orali, sugli usi e costumi, o meglio sulle ‘culture’ di varie persone nel mondo e più trovo conferme che i problemi sono già stati affrontati da qualcuno. Le culture di questo pianeta sono mille esempi di soluzioni alle domande che ci poniamo quotidianamente.
Non tutte le soluzioni sono per noi eticamente accettabili, ma questa è un’altra storia. Il punto a cui voglio sottolineare è che ciò che consideriamo ‘naturale’ normale e che a volte si cerca di far passare come ‘universale’ non è così. Le modalità di relazioni di famiglia, di procreazione e redistribuzione dei beni sono complessi sistemi per gestire le reti sociali. Legate a un contesto specifico e ad esigenze di amministrare le comunità senza dover ricorrere alla forza, dato che usare la coercizione per ‘regolamentare’ le relazioni ha bisogno di una grande quantità di risorse in eccesso, che non tutte le popolazioni hanno voglia di sottrarre al proprio tempo di vita.
I ‘selvaggi’ hanno speso elaborato soluzioni molto sofisticate, messe a punto in centinaia di anni di adattamento e elaborazioni. Le culture non sono statiche, si adattano, modificano, riorganizzano in funzione dei cambiamenti.
Riportiamo la riflessione di Claude Lévi-Strauss , fatta quasi 40 anni fa, ma ancora molto attuale.
Fabio Malfatti
————————————————-
Claude Lévi-Strauss
«Gli antropologi hanno molto da dire sulla procreazione artificiale, perché le società da loro studiate si sono poste tali problemi e hanno elaborato alcune soluzioni. Queste società, è vero, ignorano le tecniche moderne di fecondazione in vitro, di prelievo di ovuli o di embrione, di trasferimento, impianto e congelamento. Ma hanno immaginato e messo in atto formule equivalenti, almeno dal punto di vista giuridico e psicologico. Permettetemi di fare qualche esempio.
L’inseminazione grazie a un donatore ha il suo equivalente in Africa, presso i Samo del Burkina Faso. In questa società, ogni ragazza si sposa molto giovane, ma prima di andare a vivere con suo marito deve, per tre anni al massimo, avere un amante scelto da lei e ufficialmente riconosciuto come tale. Poi porterà al marito il primo figlio, nato dall’unione con l’amante, che sarà considerato il primogenito dell’unione legittima. Da parte sua, un uomo può avere più mogli legittime ma, se queste lo lasciano, egli rimarrà giuridicamente il padre di tutti i bambini che esse metteranno al mondo successivamente. In altre popolazioni africane, il marito vanta un diritto anche su tutti i figli futuri, a condizione che tale diritto venga nuovamente sancito, dopo ogni nascita, dal primo rapporto sessuale post partum. Il rapporto designa l’uomo che sarà il padre legittimo del prossimo bambino. Un uomo sposato con una donna sterile può anche, dietro pagamento, accordarsi con una donna feconda perché questa lo faccia diventare padre. In questo caso, il marito della donna sterile è il donatore di seme, e la donna “presta” il suo ventre.
Presso gli indios Tupi-Kawahib del Brasile, che ho visitato nel 1938, un uomo può sposare simultaneamente o in successione più sorelle, oppure una madre e la figlia nata da una precedente unione. Queste donne crescono in comune i loro figli senza preoccuparsi affatto, mi è sembrato, del fatto che il bambino di cui si prendono cura sia il proprio o quello di un’altra delle spose del marito. La situazione simmetrica prevale in Tibet, dove più fratelli hanno in comune la stessa sposa. Tutti i figli sono attribuiti al primogenito, che viene chiamato “padre”, mentre gli altri mariti vengono chiamati “zio”. In questi casi, la paternità o la maternità individuale sono ignorate o non se ne tiene conto.
Torniamo in Africa, dove i Nuer del Sudan assimilano la donna sterile a un uomo. In qualità di “zio paterno”, questa riceve dunque il bestiame che rappresenta il “prezzo della fidanzata” (in inglese bride price) pagato per il matrimonio delle sue nipoti, e se ne serve per comprare una sposa che le darà dei figli grazie ai servizi remunerati di un uomo spesso straniero. Presso gli Yoruba della Nigeria, le donne facoltose possono acquistare delle spose, obbligandole ad avere rapporti con un uomo. Quando nascono dei figli, la donna, “sposa” di diritto, li rivendica, e coloro che li hanno procreati, se vogliono tenerli, devono pagarla profumatamente. In tutti questi casi, coppie formate da due donne che, letteralmente, chiameremmo “omosessuali”, praticano la procreazione assistita per avere dei figli di cui una delle donne sarà il padre di diritto, l’altra la madre biologica. Le società senza scrittura conoscono anche equivalenti dell’inseminazione post mortem.
Un’istituzione attestata da millenni (perché esisteva già presso gli antichi ebrei), il levirato, permetteva e talvolta imponeva che il fratello cadetto generasse in nome del fratello morto. Presso i Nuer sudanesi, di cui ho parlato, se un uomo moriva celibe o senza discendenza, un parente prossimo poteva prelevare dal bestiame quanto serviva per acquistare una sposa. Tale “matrimonio fantasma”, come dicono i Nuer, lo autorizzava a generare in nome del defunto, poiché questi aveva versato il compenso matrimoniale che permetteva la filiazione.
In tutti gli esempi che ho presentato, nonostante lo statuto famigliare e sociale del figlio si determini in funzione del padre legale (anche se quest’ultimo è una donna), il figlio conosce comunque l’identità del genitore e i legami di affetto che uniscono entrambi. Contrariamente a quanto crediamo, nel bambino la trasparenza non suscita il conflitto scaturito dal fatto che il padre biologico e quello sociale sono individui diversi.
Tutte queste formulazioni offrono altrettante immagini metaforiche anticipate delle tecniche moderne. Constatiamo in questo modo che il conflitto tra la procreazione biologica e la paternità sociale che ci imbarazza così tanto non esiste nelle società studiate dagli antropologi. Fuori da ogni esitazione, esse privilegiano il sociale, senza che i due aspetti si urtino nell’ideologia del gruppo o nello spirito degli individui. Se ho insistito a lungo su questi problemi è perché essi mostrano in maniera precisa, mi sembra, quale genere di contributo la società contemporanea può attendersi dalle ricerche antropologiche.
L’antropologo non propone ai suoi contemporanei di adottare le idee e i costumi di tale o talaltra popolazione esotica. Il nostro contributo è molto più modesto, e si esercita in due direzioni. Anzitutto, l’antropologia rivela che quanto consideriamo come “naturale”, fondato sull’ordine delle cose, si riduce a costrizioni e abitudini mentali proprie della nostra cultura. Ci aiuta dunque a sbarazzarci dei nostri paraocchi. In secondo luogo, i fatti che raccogliamo rappresentano un’esperienza umana molto ampia perché provengono da migliaia di società che si sono succedute nel corso dei secoli. Aiutiamo in questo modo a mostrare quelli che si possono considerare come degli “universali” della natura umana. Ai giuristi e ai moralisti troppo impazienti, gli antropologi offrono consigli di liberalismo e di prudenza. Mettono in rilievo il fatto che anche le pratiche e le aspirazioni che turbano maggiormente l’opinione pubblica hanno il loro equivalente in altre società che non se la passano poi così male. Gli antropologi si augurano dunque che si lasci fare, e che ci si rimetta alla logica interna di ogni società per creare nel suo seno le strutture famigliari e sociali che si riveleranno vitali, o per eliminare quelle che faranno sorgere contraddizioni che solo l’uso potrà dichiarare insormontabili.»
Questo testo è un estratto da L’antropologia di fronte ai problemi del mondo moderno ( Bompiani, traduzione di S. Facioni, pagg. 186, euro 13) di Claude Lévi- Strauss ( 1908- 2009), che raccoglie tre lezioni tenute a Tokyo nel 1986
Tratto da La Repubblica 15/03/2017